Racconto breve #3: La notte del capitano
aprile 02, 2012
Il racconto che segue è stato pubblicato qualche anno fa da Giulio Perrone Editore nella raccolta a tema calcistico "La palla è rotonda" (Foto a destra).
La nascita di questo racconto è "merito" di un rigore sbagliato che mi è stato di ispirazione....non quello famosissimo di Roberto Baggio, ma un altro, uno scivolone sfortunato che costò una Champions League! A chi? Basta leggere per scoprirlo...guardare la foto per i più pigri! :-)
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LA NOTTE DEL CAPITANO
La nascita di questo racconto è "merito" di un rigore sbagliato che mi è stato di ispirazione....non quello famosissimo di Roberto Baggio, ma un altro, uno scivolone sfortunato che costò una Champions League! A chi? Basta leggere per scoprirlo...guardare la foto per i più pigri! :-)
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LA NOTTE DEL CAPITANO
L’erba è appena
appena bagnata, si piega docile agli impercettibili soffi d’aria. La calce
bianca ne avvolge una minuscola parte a formare un piccolo cerchio. Dalla cima
del filo d’erba più alto sembra di vedere una distesa infinita, una selva di
piccoli fili, uno dopo l’altro senza sosta. E’ una selva che si estende a
perdita d’occhio, ma interrotta di colpo, come fossero torri nel deserto, da due
lunghi pali. C’è un uomo. Si avvicina lento, percorre la distanza da un palo
all’altro, per fermarsi in posizione centrale, giusto di fronte al cerchio di
calce.
Un’ombra copre i
fili d’erba imbiancati, per rivelarsi dipendere da una sfera, bianca anch’essa,
di cuoio. Toglie luce ai fili bianchi, scompaiono sotto il suo peso.
La sfera è più alta
di tutta l’erba d’intorno. Dalla sua sommità è ora possibile visualizzare un
altro lungo palo, orizzontale, che congiunge dalla cima i due pali verticali. E
una rete, sullo sfondo, a riunirli tutti. E l’uomo, fermo esattamente al
centro. Indossa dei guanti, sembra. Rossi. Ha uno sguardo sgombro, che non
pensa nulla, fisso davanti a sé.
Dall’alto quel
che si vede è un’astronave, un disco volante abbagliato da luci, appena
sbarcato sulla terra in una notte di maggio.
Pur portando
nella sua plancia ovale migliaia e migliaia di uomini, tenuti per 120 minuti
prigionieri di uno spettacolo, sale nell’atmosfera soltanto un singolare
silenzio.
Giù,
nell’astronave, dall’altro lato visibile dalla sfera di cuoio, un uomo si
avvicina lentamente. Passo fermo, volto deciso, maglia blu, fascia al braccio.
Restano invece fermi, sullo sfondo un po’ sfuocato, tutti gli altri venti
uomini, come statue di cera all’altezza della metà del grande rettangolo che
riempie l’astronave.
Invece lui
avanza. Avanza perché sa che è il suo momento, perché sa che è un capitano ed
ha una nave da condurre in porto, ha un sogno da realizzare per sé e per i suoi
marinai. E allora va avanti senza paura, è lì ad un passo il sogno, lo andrà a
prendere per tutti.
Non guarda
nemmeno l’altro uomo, quando si ferma nei pressi della sfera bianca.
Dà solo
un’occhiata veloce ai tre pali con lo sfondo della rete, sa già che in quella
rete farà finire la sfera bianca. L’altro uomo ai suoi occhi quasi non esiste,
è un inutile ornamento messo lì per maggior coreografia. Poi ricorda che i fili
d’erba bianchi pressati dalla sfera non vedono la luce, e che è il momento di
liberarli.
Con sicurezza
muove pochi passi. Ed è lì, la sfera è lì, la sta colpendo, libererà i fili
bianchi alla luce dei riflettori, lanciando il globo di pelle e spago nella
rete bianca con la sola precisione del suo piede.
D’un tratto
accade qualcosa. Chi è che lo trascina giù, che sembra quasi afferrargli
l’altro piede per portarselo agli Inferi? Qual è l’insensata ragione per cui
giusto quei fondamentali piccolissimi centimetri del terreno stanno franando
sotto la sua gamba sinistra?
Non si può più
fermare, l’inerzia del destro, di quel piede che calcia con decisione, e quando
la zolla sotto l’altro frana e tradisce, la sfera è ormai calciata.
L’uomo di fronte
era già volato dalla parte sbagliata come aveva previsto. E’ però la terra, che
come un iceberg improvviso ha colpito la nave. I fili d’erba bianchi tornano a
veder la luce, ed a scorgere la sfera sempre più lontana, sempre più a destra.
Il capitano tradito dall’iceberg frana sul campo come un soldato colpito al
fronte. E’ vivo, ma in quel momento vorrebbe non esserlo più per qualche secondo:
la sfera compie il suo percorso come mai avrebbe dovuto, lambendo di un soffio
la rete ed infrangendosi all’esterno.
In quel preciso istante
il sogno svanisce, la nave affonda, niente più può ormai salvarla sebbene non
sia ancora a picco. I rossi, ormai sconfitti, si rialzano. I blu, ormai
vittoriosi, affondano.
Egli libera
tutta la crudeltà di quel destino beffardo in amare lacrime che fendono come
tagli il suo viso, lì, per un tempo incalcolabile, mentre metà dell’astronave
lancia boati per la grazia concessa ai rossi.
Ma quella coppa
lontana è tua capitano, è soltanto tua.
I marinai in blu
sono in salvo, nelle scialuppe. Ora portano via il capitano rimasto fino in
fondo sulla sua nave. Lo abbracciano, lo acclamano. Nessuno può rimproverarlo
di quell’iceberg maligno, e tuttavia hanno realizzato solo in quel momento
quanto sia grande quell’uomo con la fascia al braccio. Che sia stato il prezzo
da pagare?
I suoi occhi
sono stanchi eppur vivi, pronti a riprendere il mare, a guidare i suoi marinai.
La sua fascia è
bianca come quell’erba riportata alla luce. La sua maglia è blu, il suo numero
è 26, il suo nome è John Terry.
Racconto di Fabio Mele pubblicato nella raccolta "La palla è rotonda", Giulio Perrone Editore.
© Tutti i diritti riservati. 2012.
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