La moda del jazz - Racconto breve #10
novembre 19, 2021Una prima versione di questo racconto è del 2010, in uno dei primi post. Questa che segue è una nuova stesura, da cui è nata una storia del tutto nuova rispetto alle poche righe della prima bozza.
La moda del jazz
Seduto in un fumoso locale sorseggiavo un gin tonic, mentre i miei
occhi stanchi si guardavano attorno pur non fissando nessun posto.
Le mie mani erano ancora forti,
sebbene le rughe cominciassero a solcarle come le onde fanno con
l’oceano.
Avere sessant’anni e non avere
niente. Non erano case, denaro, lavoro a preoccuparmi e nemmeno
l’orologio, che il tempo non aveva importanza. Mi bastava dormire
sulle panchine senza nient’altro da chiedere e svegliarmi quando la
luce cominciava ad avvolgere la città.
Con lo stomaco riscaldato dal gin e i passi
stanchi, mi portai fuori sotto la luce, quella finta dei neon di New
Orleans. Mi ritrovavo nella metà oscura della Terra e della mia
vita.
Non era stato sempre così. Quando
ero ragazzo, ogni notte era come il giorno, ogni notte aveva una luce
che non era finta, non si spegneva mai e mi rendeva felice: era
Clara.
Clara sconvolse ogni mia abitudine
trascinandomi in un vortice di ebbra contentezza, di pienezza lunga
ogni istante. Poi la vita ti mette di fronte a scelte davvero
difficili. Per me arrivò l’occasione più incredibile che mi fosse mai
capitata quando, dopo il concerto a Torino, quell’uomo mi notò. Si
avvicinò piano e dall’ombra vidi emergere il suo profilo nero. Non
avevo idea di chi fosse, ma mi disse che non aveva mai visto un
bianco fare del jazz con l’anima di un nero. Mi chiese di seguirlo
per entrare con lui in una delle migliori orchestre jazz di Chicago.
Poco dopo salì sul palco, lo ascoltai al contrabbasso e ne fui
letteralmente rapito, non avevo mai visto nessuno suonarlo con quella
velocità liberando allo stesso tempo un suono cristallino, senza la
minima imperfezione.
Così arrivò presto il momento
della scelta: seguire la mia passione artistica oltreoceano o seguire
Clara? Sapevo che un’opportunità del genere non mi sarebbe mai più
capitata. Fare jazz nel tempio del jazz, tra veri signori del jazz da
cui avrei soltanto potuto imparare. Ero giovane e incosciente,
irruente, impulsivo. Se fossi rimasto in Italia avrei finito per dare
a lei tutta la colpa, scelsi così di partire. Non potevo sperare che
lei partisse con me, giovani com’eravamo. A vent’anni, era troppa
la paura di varcare l’Atlantico lasciando la propria famiglia per
andare incontro all’ignoto più sublime. Se io potevo sperare in
ciò che avrei trovato di là, se a me esaltava l’idea di passare
anni di città in città, dormendo dove capitava e suonando in
un’orchestra jazz, lei era atterrita dall’idea di una vita del
genere.
In cuor mio, nonostante tutto,
desideravo ardentemente che nel tempo ci saremmo dati un’opportunità.
Per questo quando salpai dal porto
di Genova la salutai come se il nostro fosse un saluto qualunque,
certo che – se anche ci fossero voluti anni – alla fine, forte
del mio successo, avrebbe vinto ogni paura e mi avrebbe raggiunto.
Glielo dissi, anzi, glielo sussurrai ogni secondo di quegli ultimi
minuti. Annuiva in un sorriso disperato, anche se i suoi occhi verdi
non lasciavano dubbi e io feci di tutto per ignorare quel richiamo e
convincermi di credere in ciò che le dicevo, perché potesse
crederci anche lei. Povero illuso.
La Statua della Libertà mi accolse
dall’altra parte del mondo, ma una statua, per quanto bella, non
può mai emozionarti come la donna che ami. Me ne resi subito conto,
ma non potevo più tirarmi indietro, e andai avanti.
Nell’ultima lettera l’inchiostro
era sbavato da lacrime cadute sulla carta. La porto ancora con me,
ripiegata e ingiallita nel taschino della giacca.
Le scrissi ancora per alcuni anni,
non mi rispose più nemmeno una volta e quando mi accorsi che le
lettere non potevano avere risposta, smisi anche di scriverle. Cercai
di trovare consolazione con altre donne, credetti di aver
dimenticato, ma non accadde mai. All’epoca provai a non curarmene
troppo, mi spostavo di città in città con la mia orchestra, vagavo
negli States come una mina impazzita assorbendo l’aria e la
passione che si respiravano in quegli anni.
Poi i concerti diminuirono, i gruppi
rock soppiantarono ogni nostra velleità di continuare ad avere il
successo degli anni d’oro. L’orchestra si sciolse e per il resto
della vita continuai a guadagnarmi da vivere suonando da solo. Ormai,
però, era molto tempo che non accadeva più. Alle soglie dei
sessanta sopravvivevo di espedienti, come possibile, lontano dalla
musica e in attesa che Clara rispondesse all’ultima lettera vecchia
ormai di sei mesi. Riscriverle dopo tanto tempo forse non era stata
una buona idea.
Mentre quei pensieri mi portavano da
luce finta a luce finta, mi accorsi di ritrovarmi all’ingresso di
un altro locale, l’ennesimo, stavolta un disco pub. Certo, era il
1989, non era più come quando li giravo da giovane, quell’aria e
quella passione erano svaniti, anche negli occhi della gente.
Dal disco pub arrivava musica
incomprensibile. A volte la ballavo, per fare qualcosa, per
disperazione, seguendo l’altra musica che mi fluiva in testa.
In rare eccezioni, però, capitava
di tornare a sentirmi vivo e quella sera fu una di quelle. Lasciai il
disco pub e vagai ancora di neon in neon. Trovai un piccolo locale su
misura, proprietario cordiale, neri d’America ai tavoli. Andai al
bancone e chiesi ancora da bere.
Posai l’unica cosa che mi era
rimasta: non avevo niente, ma avevo il mio sax.
Mi chiesero chi ero, perché lo
portavo in giro. Spiegai quello che ero negli anni Quaranta e
Cinquanta, quando mi chiamavano “The White Charlie Parker”,
quando il jazz scorreva per le prime volte nelle vene del mio corpo e
come un fiume in piena nelle arterie statunitensi. Talmente forte da
essere stato persino più forte dell’amore per Clara, questo lo
pensai, ma non lo dissi.
Amavo il jazz più di me stesso, la
forza e la malinconia di fondo, nei pezzi veloci e nei pezzi più
lenti.
Un brivido che percorreva l’anima
restandomi dentro. Almeno, quel brivido lo potevo ancora sentire.
Presi il respiro e suonai con la
passione di un tempo, lasciando che fosse il suono a guidarmi e non
io a guidare lui. Gli occhi chiusi. Li aprivo di tanto in tanto solo
per non dimenticare totalmente dove fossi. Quando posai il sax, tutti
si lasciarono andare ad un applauso spontaneo. Mi accorsi che quei
giovani mi avevano guardato con rispetto, ma non so quanto fossi
riuscito a trasmettere quel brivido.
Mi chiesi se prima o poi sarebbe
tornata la moda del jazz.
Sto ancora aspettando. Entrambe.
© Fabio Mele 2021
Rilascio il racconto con licenza CC BY-ND 3.0 IT:
Sei libero di condividere — riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare, eseguire e recitare questo materiale con qualsiasi mezzo e formato per qualsiasi fine, con obbligo di menzione di paternità dell'opera a mezzo link e divieto di distribuire questo materiale modificato.
Foto 1: AlexJive da Pixabay.com.Foto 2: David Mark da Pixabay.com.
Foto 3: Free-Photos da Pixabay.com.
Foto 4: propria
0 commenti
...dì la tua!