Racconto breve #5: Oltre l'orizzonte. Il caso Cucchi e un racconto.
novembre 04, 2014Carcere dell'Asinara. Foto Flickr by Pochestorie, licenza CC BY. |
La sentenza sul caso Cucchi ha dato adito a mille polemiche. Ciò che resta è la sensazione di rabbia di fronte all'incapacità dello Stato di trovare i responsabili. Segno che molte volte le persone più deboli sono lasciate completamente sole, anche nell'incapacità di poter sostenere un processo e di difendersi.
Ciò ha richiamato alla mia memoria un racconto che scrissi tempo fa. La voce narrante è quella di un prigioniero. A ispirarlo è stata ancora una volta una canzone, la bellissima "Aria" di Daniele Silvestri, che potete ascoltare in fondo al racconto.
Oltre l'orizzonte
Dicevano che ero un pazzo. Che non avevo speranze. Che ero completamente fuori di senno. Che avrei fatto meglio a tornare sui miei passi. Anche se, in realtà, proprio miei passi non erano, erano i loro passi, quelli che loro consigliavano per me.
E invece, alla fine, non cedetti a tutte le parole piovutemi addosso ogni volta che confidavo le mie intenzioni. Non cedetti mai. Sarebbe stato semplice dire che avevano ragione…ed anche se avessero avuto ragione, sarei stato io, a sentirmi in difetto con la voce che parlava in me e che diceva tutt’altro.
La voce che
parlava in me non diceva “torna sui tuoi passi”, ma diceva “vai avanti, vai
avanti su nuovi passi e percorrili. Con rispetto, ma senza averne paura. Non
cedere, come molti hanno deciso di non seguire la propria voce. La senti questa
voce? Se la senti vuol dire che ancora mi credi, e se mi credi e riesci ad
ascoltarmi, sei ancora in tempo per non perdere te stesso”.
Carcere dell'Asinara. Foto Flickr by Pochestorie, licenza CC BY. |
Questo diceva la
mia voce, e accidenti no, non volevo perderla. Era necessario starla a sentire,
eliminando il più possibile il fruscio di fondo di tutte quelle altre voci che
dicevano “è una follia”.
Follia o meno,
questo era quanto la mia voce diceva di fare. Dal momento che non volevo
perderla e passare tutto il resto della mia vita senza aver più chi ascoltare
in me, alla fine fu più forte di ogni discredito, di ogni paura, di ogni
scotimento di testa o sogghigno.
Tra le pareti
della stanza, a volte rivedevo me stesso da piccolo e quanto amassi gli spazi,
quanto guardando fino a dove era possibile arrivare, mi sorprendessi a non
poter vedere al di là di un certo limite, ed invece era proprio l’oltre, quello
che volevo vedere. Ciò che vedevo lo conoscevo, ma era tutto il resto quello
che non sapevo e – se la vita avesse potuto renderlo possibile – mi sarebbe
piaciuto passare ogni istante della mia esistenza dietro l’orizzonte. Non
importava cosa ci fosse, avrei potuto pensarci io a dargli forma, colori ed
ambienti.
Crebbi, ma la
vita da sposa fedele a volte per alcuni diventa puttana, si vende
all’irreparabilità degli eventi, giusti o sbagliati che siano. Lo fa e basta. E
quando decise che era momento colpì anche me.
Non so come ci
finii in quella storia, ma non ero colpevole. Un’incredibile serie di
coincidenze ed ecco che per tutti, per tutto il mondo, il colpevole ero stato
io. E quando una condanna ti piove addosso con l’ineluttabilità di una sentenza
definitiva, non c’è innocenza che tu possa gridare, per quanto sia più vera di
ogni faccia che ti ha giudicato. Lo sai tu, lo sa la tua voce. Per il resto del
mondo sei solo un assassino che merita la giusta pena.
Così mi tolsero
tutto. Mi tolsero l’amore, che credette a quella giustizia. Mi tolsero la
famiglia, che non ebbe mai il permesso di vedermi. Mi tolsero il rispetto e la
dignità per essere trattato come un tronco d’albero. Mi tolsero la vita che
avevo per sbattermi lì, in isolamento in quel carcere duro, all’Asinara.
Ci davano ranci
da cani e trattavano me e tutti gli altri molto peggio delle bestie. Ricordo le
volte in cui restai senza acqua per tre giorni e senza cibo per sette, per aver
tentato di scappare ed esserci quasi riuscito. Nel tempo assistetti impotente
al deperimento del mio corpo che diventò una carcassa derelitta, ma gli occhi
non smisero mai di brillare. Assistetti a scene orripilanti, scorsi la nebbia
offuscare gli occhi degli uomini, gente entrare normale e finire pazza. Non
sopportarono che la realtà fosse diventata inferno, e preferirono il delirio.
Io in ogni
momento, in ogni circostanza, mi concentravo per trovar la forza di tenere i
nervi intatti al loro posto e quando non ci riuscivo – o quando riaffiorava
come uno squalo in superficie il dolore di essere lì senza colpe – il muro era
sempre presente ad assorbire pugni, calci, urla e lacrime, ma non persi mai la
lucidità. Soltanto, la tua vita era quella, e il passato un’altra vita.
Eppure la rivedevo, lei. Se solo mi avesse
creduto, se avessi potuto vederla una sola volta ancora e spiegarle tutto, in
un momento e per sempre. E se almeno avessi potuto conservare una sua foto, ma
non la avevo. Ogni giorno allora mi allenavo a ripensarla almeno pochi minuti…per
non perdere ogni lineamento del viso, quando gli anni si accumularono uno dopo
l’altro.
Tra quelle mura,
a forza di scrutarne e conoscerne ogni singola crepa, quasi scordavi che fuori
esisteva tutto il resto del mondo e c’era chi lo dimenticava davvero, lì.
Foto Flickr by pang yu liu, licenza CC BY-SA. |
Non sto qui a
raccontarvi come feci, ciò che conta è che dopo quattromiladuecentodiciotto
giorni rinchiuso in quella scatola dove tutte le emozioni si annullavano nella
testa, dove non potevi più distinguere né dolore né pietà, riuscii a prendere
il mare in una notte di febbraio: perché le emozioni non si erano spente nel
cuore. Qualche compagno mi coprì, nonostante dicessero che ero un folle. Tutti
gli altri se ne accorsero tardi.
La sirena
riecheggiò numerose volte ad annunciare la mia evasione e sentinelle e guardie
e mezzi arrivarono sulla costa in mio onore quando era troppo tardi, potevo
osservare le loro luci da lontano, orgoglioso, nel mare. Non mi avrete
bastardi, non mi avrete mai più.
Lottai per ore, accanito
e con tutte le forze che mi restarono, onda dopo onda, scendevo e risalivo. Un
braccio avanti e le gambe in moto. Un’onda. Giù. Di nuovo su. L’altro braccio
avanti e ancora di gambe. Guardavo fisso l’orizzonte ogni volta che potevo. Me
ne riempivo gli occhi ricavandone energie inimmaginabili. Per quanto tempo non
avevo più potuto farlo?
Rimasi ore nel
mare in tempesta. Nuotai e affondai, nuotai e affondai, infinite volte. Fino ad
un’onda. L’ultima. Non mi riuscì più di risalire, ma nonostante ciò sorrisi.
Trovarono il mio
corpo sulle coste sarde, tre giorni più tardi.
Ma non importa, ora
sono felice. Ho sentito dentro me la voce sostenermi fino all’ultimo. Ho
combattuto per un sogno, e l’ho avuto, comunque.
L’aria adesso è
la mia essenza. La mia fuga è nel vivido ricordo di tanti altri uomini rifugiati
nella stessa speranza.
Ora finalmente
sono libero. E ora so cosa c’è oltre l’orizzonte.
© Fabio Mele 2014
Testo rilasciato con licenza CC BY-ND 3.0 IT:
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